L’atto di sentire
Sto vivendo un flash-back di una delicatezza inattesa. I suoni della mia infanzia sono quelli della periferia. Suoni familiari ma indistinguibili, abbandonati ma mai dimenticati e, qui dal balcone di casa, in questa bonaccia di aprile, riscopro pratiche e usi che sento di aver dimenticato, che da tempo non sono abituato a percepire.
Un suono che fino ad ora non avevo conosciuto è quello della città nella quarantena: non un silenzio indistinto, grigio, banale ma un silenzio che il tiepido sole di primavera permette al balcone, primo luogo di relazione con l’esterno e con il mondo, di riacquisire la dignità di luogo.
I balconi riprendono vita, colonizzati dall’esposizione della bandiera che ci trasmette un primo esitante messaggio, oltre la condivisone sportiva: siamo italiani, siamo chiamati a resistere a un tempo di paura e disagio, siamo isolati e confinati entro luoghi che per paradosso poco conosciamo, di cui ogni giorno scopriamo dettagli, nicchie, altre dimensioni.
Di alcuni percorriamo avanti e indietro le aree e i perimetri, centimetro per centimetro; di altri ricordiamo il nome ma non ne abbiamo più pratica quotidiana. Androne, ingresso, cavedio, scale, cantine, autorimesse e balconi, appunto.

Questa limitazione ci fa sperimentare con atti nuovi quello che abbiamo depurato, perché i balconi, appesi alle facciate lineari e asciutte di normative tradotte in superfici e volumi, riprendono un loro nuovo e inatteso significato, e dilatano l’ordinario in cui risediamo.
Lo spazio del balcone è spesso angusto e banale, lo utilizziamo per stendere il bucato, riporre gli utensili che non vogliamo avere in casa, darci un minimo senso di protezione dalle intemperie. Il sole tiepido e le giornate luminose di questa primavera aiutano il mio timoroso approccio oltre la soglia.
Non abbiamo tempo, nel tempo ordinario, della cura quotidiana delle piante, che faticano a riguadagnarsi lo spazio esterno; i gerani non cadono più dal balcone appesi alle ringhiere e non moltiplicano più il volume esterno dell’abitare. Non vedo più le piccole serre che i nostri padri allestivano, per far resistere le piante anche in inverno. Per decoro? Per pudore di mostrare all’esterno qualcosa di noi?
L’atto di sporgersi dal balcone per stendere la biancheria all’aria aperta ha subito delle mutazioni, prima i panni stesi prendevano posto sulle interminabili terrazze delle case di fine Ottocento, poi sul fronte della pubblica via e poi ancora sui retri, negli spazi residui dell’affaccio secondario. L’asciugatrice infine ci ha tolto il profumo dei tessuti che trattengono il vento, ma il cinema neorealista ci lascia l’immagine dell’asciugatura lenta delle lenzuola antiche.
Dopo tanti anni, ho riconquistato l’esterno della casa in cui vivo, la mia vita sempre in moto ha trovato una pausa obbligata e un nuovo spazio da occupare. Faticavo prima a vivere lo spazio del balcone un po’ per l’aria pesante della città, e un po’ perché è un posto che non sa adattarsi alle stagioni, refrattario alla sua manipolazione.
Il balcone ha bisogno del clima giusto, quello attuale, posso così lavorare e dedicarmi al progettare artigiano, costruendo plastici e assemblando elementi, posso usare utensili e materiali, qui, dove sporcare è consentito perché è più agevole pulire e riordinare.
Nel frattempo, ascolto le voci e i bambini dei palazzi attorno a me, e i litigi, e le canzoni e gli inni nazionali che si propagano dal vicinato. I suoni che sento rievocano le identità dei luoghi, ho bisogno dello scricchiolio del ghiaino, dimenticato dalla sigillatura dell’asfalto, del tonfo dei piedi nudi attutito da un accogliente pavimento di legno.

Il balcone ha però un rivale, la loggia, che il progettista spesso predilige perché a filo, perché scompare nell’asettica stereometria della facciata. È una competizione sia normativa che culturale, la battaglia contro il balcone la portiamo con noi dagli anni in cui celare era meglio che mostrare, in cui volevamo proteggerci, ritirarci, tutelare la nostra privacy fino a scomparire dietro le mura serializzate.
A noi architetti va la colpa culturale di aver inibito l’aggetto, l’apertura del nostro vivere al mondo, facendolo diventare una decorazione urbana.
Un mondo può riapparire su un balcone: l’uso imprevedibile e inconsueto che vedo fare dai miei dirimpettai da sette settimane, fa pensare che abbiamo molto a cui pensare nella nostra attività di progettisti e che va oltre l’immagine del bosco per ricchi meneghini.
Fioriscono i nostri balconi, non già di fiori ma di suoni. Le persone che abitano dietro quelle porte finestre vi si approcciano a piccoli passi, smarriti e quasi aggrediti da questa nuova convivialità, usciamo dallo stato di indifferenza tra vicini, certo non tutti, e riscopriamo uno standard di relazione largo un metro e venti. Il DCPM 22.03.2020 ci costringe a rammendare il nostro tempo quotidiano.

Carlo Alberto Cegan, veloce e rumoroso, se passa te ne accorgi ma è difficile stargli dietro. Approccia a nuovi metodi, ricerca tecnologie, concepisce progetti con la rapidità con cui affronta le sue giornate.
Si occupa di progettazione architettonica, ricerca e sviluppo di opportunità.